APICE è l’odore di sale che si incolla alla pelle e ti lascia l’ultimo profumo d’estate nelle fresche sere di settembre, quando il mare saluta gli ultimi bagnanti e l’acqua si fa più scura. APICE è la sua voce e gli ottantotto tasti di una tastiera, in mezzo ai quali il bel tempo sta per arrivare, prima che scenda la sera. 

Com’è nata la tua ultima produzione? C’è stata un’ispirazione particolare, e se sì quale?
Credo che BELTEMPO sia il risultato di un processo di autoanalisi durato quasi un anno, che mi ha segnato tanto e nel profondo. Poi io sono un masochista vero, quindi nelle piaghe ci sguazzo con l’entusiasmo di un bambino a cui per Natale hanno regalato una trivella. Le nove canzoni di Beltempo sono tappe di un mio percorso personale, che sento di aver portato avanti con estrema sincerità. E una buona dose di autolesionismo, che non fa mai male: non è un caso che al centro delle tematiche del disco vi sia il concetto di corpo, di nudità e di forte fragilità. Siamo tutti nudi, al centro della mareggiata, ad aspettare il sereno.

Quali sono le tue principali influenze?
Sono innamorato della parola, e quindi ti rispondo dicendo che ad affascinarmi è tutto ciò che è detto bene, attraverso una forma che non perda di vista il contenuto. In termini musicali, ho studiato quasi tutto il cantautorato italiano; dico quasi tutto, perché la scena autorale nostrana è davvero infinita. Ed è bello che sia così, tale varietà di qualità credo sia il principale quid della nostra identità letteraria contemporanea, ed è incoraggiante che sempre più spesso, nei testi scolastici, comincino a spuntare i nomi dei nostri grandi cantautori. Soprattutto oggi, che ricordarci il potenziale esplosivo della parola è tornato ad essere un requisito civico importante, per non trovarci domani a vedercele detonare in mano, nelle piazze, nei comizi.

Come nascono i tuoi brani?
Non lo so, sai? A volte me lo chiedo anche io, nella ricerca di quel bottoncino che mi faccia dire “bene, ora premo il pulsante e affronto la mia paura del foglio bianco”. Non esiste un manuale, per fortuna, e forse oggi, se ne scoprissi l’esistenza, lo brucerei. La mia paura l’ho affrontata (per ora) confrontandomi con la scrittura solo quando sentivo l’impellente necessità di dire qualcosa. Perché insomma, di canzoni ce ne sono anche troppe in giro, e credo che se un brano non è sincero, la gente poi se ne accorge. Quindi, se devo rispondere alla domanda inIziale, ti dico che nasce tutto da un’urgenza, da un debito d’aria nei confronti di me stesso, perché sono pur sempre un autoreferenziale perso, e il mio narcisismo non ha proprio confini, come credo quello di chiunque abbia sposato questa missione tremenda che è farsi salvare da chi ascolterà i tuoi pezzi.

Cosa conta di più tra una pagina Facebook con tanti like o un buon disco?
Ti direi la seconda, e ti dico la seconda. Ma purtroppo, senza i canali social un buon disco rischia di rimanere un fiore non colto. Fa male, da morire, ma è così: è parte del gioco e del grande compromesso linguistico di fronte al quale il mercato ti pone. Di certo, però, preferisco avere tra le mani un disco di cui sono orgoglioso, e che magari ascoltiamo solo io e la mia mamma, che una pagina social con migliaia di followers a cui non ho niente da dire se non quello che mangio, bevo e faccio. Insomma, se ci fossero meno influencer e più musicisti, credo che l’umanità nel suo percorso evolutivo farebbe nuovamente qualche passetto nella giusta direzione, in direzione ostinata e meravigliosamente contraria.

Un aspetto positivo ed uno negativo del fare musica?
Scrivere fa star bene, e fa star bene vedere che non siamo diversi, anche nelle più macroscopiche e personali differenze: siamo tutti soli, e abbiamo gli stessi mali, siamo cattivi e buoni, saggi, falsi, sinceri e coglioni, come diceva Francesco Guccini. La cosa tremenda è che oggi sembra che a dar valore al lavoro fatto non sia tanto la qualità del progetto (che certo è soggettiva) o l’organicità degli ascolti (qui invece si parla di dati statistici), ma il fatto che un artista entri o non entri in una major playlist. È un fatto incredibile che da questo dato derivi lo sbloccarsi di porte e portoni altrimenti chiusi a chi, spesso, propone progetti interessanti ma lontani dalle linee editoriali delle grandi piattaforme; è il modo migliore, ahimé, per sacrificare sull’altare del consumismo musicale il diritto che ognuno di noi dovrebbe avere all’accessibilità al diverso, e alla pluralità di un prodotto che deve tornare ad essere culturale, a mio parere, e non solo prodotto di mercato.

Credi che un artista debba schierarsi politicamente? Approvi la politica nella musica?
Non credo debba per forza farlo, quanto meno esplicitamente. Ma si può non essere politici, quando si canta su un palco? Si può non essere, anche solo involontariamente, riferimento di comportamento e di pensiero per la posizione privilegiata che hai, con un microfono in mano?
Credo che tutto sia politico. E chiunque si esibisce davanti ad un numero di persone superiore a due, deve tenere in conto l’alta responsabilità che ha, derivata da essere lui a parlare, in una sede – quella del concerto – non destinata di certo al dialogo, ma solo alla comunicazione attiva di chi ha in mano la “voce” e la ricezione – si spera attiva anch’essa – di chi ascolta. Insomma, da grandi poteri derivano grandi responsabilità, sempre.

Come pensi incida l’esser attori nel mondo musicale nel campo delle relazioni personali?
Non lo so, a me non sposta troppi equilibri. Sono noioso, moralista e pedante anche nella realtà, oltre che su disco.

Un artista (vivo o morto) con cui faresti un featuring?
Assolutamente Giovanni Truppi. Solo per scoprire come fa a pensare quello che scrive. I morti lasciamoli stare, che finiamo con il non apprezzare i vivi.

Quando ti sei ubriacato l’ultima volta?
Oddio, non me lo ricordo. E credo che la cosa dipenda dagli effetti a lungo termine dei miei vizietti.

Domande da pistola alla tempia, da rispondere senza tergiversare:
Beatles o Rolling Stones? Beatles
Venditti o De Gregori? Nella totalità del percorso di entrambi, dico De Gregori, ma il Venditti degli anni Settanta era un gran figo.
Pasta o pizza? Mi astengo
Birra o vino? Ah, ma sono difficili! Mi astemio. Solo per non fare un torto a nessuna delle due possibilità.
Chitarra o pianoforte? Suono male entrambe, ma suono male da più tempo il pianoforte quindi dico pianoforte.
Arrivederci o addio? Addio. Mi devo impegnare a dirlo. Sono diventato grande!
È più Umberto Tozzi il Rod Stewart italiano o è più Rod Stewart l’Umberto Tozzi scozzese? Io da bravo campanilista mi lancio sulla paternità dell’Umbertone nazionale.

Progetti per il futuro?
Suonare, e capire come si scrive una canzone. E imparare a dire addio. Ma ad Indiependence, dico grazie e arrivederci. Con il cuore.

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