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Parlateci del vostro ultimo album, cosa vi ha ispirato nella composizione?

“Sempre lo Stesso Cinema” è un disco che racchiude l’essenza della nostra musica nella sua varietà. Non siamo totalmente ancorati a un genere, gravitiamo nell’orbita del pop ma ci piace intrometterci qua e là per seguire le nostre inclinazioni musicali, che sono molteplici. Il tema di fondo di questo nostro primo EP è la tensione tra la stasi e il movimento, tra il mantenimento dello status quo e la voglia di rivoluzione. È una tensione che viviamo personalmente, è naturale che confluisca nelle canzoni che scriviamo. Si parla di una ragazza innocente che scopre la passione, di una coppia di ballerini che vorrebbe danzare in giro per il mondo ma alla fine resta sempre dov’è, di un amore infelice e reazionario e di uno rivoluzionario, dei sette peccati capitali e dei demoni che li rappresentano. A ispirarci, direttamente o inconsciamente, sono le emozioni che proviamo e ciò che ascoltiamo, leggiamo, guardiamo. Ci piace soprattutto raccontare storie malinconiche con leggerezza.

Quali sono le vostre principali influenze?

Ascoltiamo di tutto, siamo 7 e ognuno di noi ha un background culturale diverso. Questa è un’incredibile fonte di ricchezza, soprattutto quando si tratta di arrangiare i brani. Nella scrittura l’influenza maggiore è quella del cantautorato italiano, specialmente quello più scanzonato che dialogava col rock (Ivan Graziani, Rino Gaetano) e quello nato nell’ultimo decennio, Brunori SAS su tutti. Ma è impossibile non citare Maestri come Battiato, De André, Joaquín Sabina.

Come nascono i vostri brani?

L’idea per una canzone può nascere da qualunque suggestione interna o esterna: una scena o una persona vista per strada, un’immagine, un dipinto, un libro, un film. Il cinema in particolare è una fonte inesauribile di ispirazione, non solo i film nella loro interezza ma anche nelle singole componenti: un taglio di luce, una battuta, il viso di un attore possono accendere un’emozione che si trattiene nel cervello e si sviluppa dando vita a una canzone. Di solito sappiamo di cosa vogliamo parlare ma non abbiamo subito le parole, ci sono sensazioni che si trasformano in musica e su questa poi scriviamo il testo. Ma a volte succede il contrario, oppure le due componenti nascono insieme. Il momento più collaborativo è quello dell’arrangiamento, ci troviamo in sala prove con un provino essenziale e sperimentiamo diverse soluzioni. Giochiamo con strumenti e suoni fino a quando ci sembra che il brano abbia acquistato il giusto mood.

In un mondo sempre più incentrato sul web, cosa conta tra una pagina FB con tanti like e un buon disco?

Sarebbe bello rispondere “solo un buon disco”, ma i like in un certo senso hanno sostituito il denaro, chi ne ha di più comanda. Lo vediamo in politica, figuriamoci nella musica. Quindi se vuoi vivere di musica devi farci i conti. Anche prima del web era così, raggiungere il pubblico è sempre stato fondamentale per ovvie ragioni. Le canzoni si scrivono per se stessi e guai se non fosse così, ma se poi piacciono all’esterno la soddisfazione è indescrivibile. E speriamo sia il nostro caso! Poi è chiaro che per un musicista l’unica cosa che deve contare davvero è fare bei dischi e bei concerti seguendo la propria testa, perché se per avere più like si distrae dalla musica – o, peggio, rinuncia alla sua identità – per rendersi più accattivante forse diventa un buon influencer ma smette di essere un artista. Detto ciò, un like alla pagina mettetecelo che tutto fa brodo!

Vi riconoscete nella definizione di artisti indie?

Sì, perché essere indipendenti significa suonare la musica che si vuole e non quella che si pensa possa piacere al pubblico, al di là dei generi. Se per “indie” si intende underground ci sembra che il concetto oggi sia quantomeno confuso. Prima di internet c’era una divisione molto più netta tra i circuiti underground e mainstream, ora che radio e tv contano molto meno e il circuito principale per tutti è il web appare superfluo fare una distinzione. Questa rimane per i circuiti live e anche qui ci riconosciamo nella definizione, nel senso che speriamo di calcare presto i palchi dei festival indipendenti in tutta Italia!

Cosa ne pensate dell’attuale music business?

Rispetto a vent’anni fa le case discografiche hanno ridotto gli investimenti, si preferisce puntare tutto su due o tre artisti che rendono bene – magari usciti da un talent – e si tende a replicare all’infinito qualcosa che ha funzionato una volta. Questo può generare un certo appiattimento. Si tende a trattare il pubblico come un bambino, dandogli ciò che si ritiene lui voglia ascoltare. Ma ovviamente è pieno di gente che non ascolta reggaeton e derivati e per fortuna gli spazi alternativi e indipendenti ci sono! Se si fa buona musica e ci si impegna anima e corpo si possono sempre trovare contesti in cui esprimersi. Questo è quello che conta.

Credete che le nuove tecnologie aiutino il rapporto tra musicisti e pubblico o che li abbiano distanziati?

Senza dubbio i social aiutano molto il rapporto tra pubblico e musicista, soprattutto se questo è un personaggio particolarmente interessante o originale. Aiutano meno quello con la sua musica, forse. La fruizione di musica attraverso lo streaming e le playlist sulle piattaforme invece ha avvicinato moltissimo le persone alla musica, secondo noi. Si ha a disposizione in un’app quasi tutta la musica mai pubblicata, basta essere sufficientemente curiosi per scoprire meraviglie nascoste.

Qual è a vostro giudizio il confine tra indie e mainstream?

Se dovessimo tracciare un confine, diremmo che nel panorama indie la percentuale di originalità, genuinità e profondità è molto superiore rispetto alla scena mainstream, in cui si tende a replicare formule e contenuti stanchi o banali. Questa differenza qualitativa ci sembra la più evidente, per il resto come abbiamo detto prima il confine tra i due mondi è sempre più labile. Un tempo la musica “indie” era quella di nicchia, meno immediata, che veniva considerata difficile da far digerire al grande pubblico radiofonico e televisivo. Oggi la scena indie comprende artisti molto diversi tra loro – c’è chi fa pop molto melodico e chi musica più sperimentale, chi gode di una fama paragonabile agli artisti mainstream e chi no – accomunati dall’appartenenza a etichette indipendenti che a volte di fatto hanno un potere simile a quello delle major. A Sanremo concorrono gli Zen Circus (sempre siano lodati!), al MiAmi canta Luca Carboni, Elisa duetta con Calcutta. Insomma, non esiste un confine netto e i due mondi tendono a mischiarsi. Questo è positivo, perché il mainstream viene contagiato dall’originalità di cui parlavamo prima!

Per quella che è la vostra esperienza, consigliereste l’esperienza di un talent ad altre band?

Rispettiamo chi partecipa ai talent, ma noi non l’abbiamo mai fatto né abbiamo intenzione di provarci. Red Ronnie li ha definiti “gare di karaoke” e ha ragione, non sono nulla più di questo. Possono essere una vetrina interessante per gli interpreti, ma per chi scrive è meglio cantare i propri inediti in qualche piccolo festival piuttosto che una cover davanti a un milione di persone.

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