Parlaci del tuo ultimo lavoro. Cosa ti ha ispirato nella composizione?

Crepe nasce nel momento della personale presa di coscienza della mia fragilità. Ero stanco di farmi la guerra, di processarmi costantemente in quotidiani auto-da-fé che mi lasciavano sempre più scarnificato di fronte all’impossibilità di darmi delle risposte; credo sia questa una sorta di dimensione autolesionista e masochista che appartiene in generale al nostro tempo, alla mia generazione: in un mondo di chiacchiere e in mezzo a montagne di fumo diventa difficile darsi una forma di fronte all’estrema liquidità del reale. Ci hanno insegnato a riempire di calce e stucco i nostri vuoti esistenziali, senza mai dirci che la somma delle domande che ci poniamo è la chiave d’accesso più efficace al conoscere chi siamo; la risposta è un qualcosa di immobile, di immutabile e stagnante: è quella stessa catena che ti inchioda a guardar sfilare il sessantotto del dubbio, senza interessartene per paura di riaprire cassetti pieni di punti interrogativi. Al di fuori di queste gabbie dorate, piene di timore e di verità a basso costo, esiste una grande rivoluzione che passa attraverso la convivenza con la propria miseria, con le proprie crepe. Dopotutto, come diceva Italo Calvino, ogni città, ogni realtà, prende forma dal deserto a cui si oppone; e penso non esista forma di coraggio più eroica del vivere la propria, unica, fragilità.

Quali sono le tue principali influenze?

Purtroppo, ho sempre ascoltato poca musica rispetto a quella che avrei dovuto e potuto ascoltare. Ho studiato musica classica (con scarsissimi risultati) per tanti anni, mi sono innamorato ben presto del cantautorato e ho suonato progressive rock in band per tanto tempo prima di prendere la via della solitudine da masturbatore cerebrale; ho scimmiottato per anni, da bravo feticista, i principali esponenti della musica d’autore. Poi ad un certo punto penso mi sia venuta la paura di scomparire, e ho cominciato a divertirmi di più con le parole. Ho in previsione palestre di jazz che rimando da anni, ci sono alcuni pesi che si possono alzare solo dopo anni di allenamento; certa musica suscita ancora in me un timore reverenziale tale da farmi rimandare il momento dell’approccio. Senza considerare che sono un pigro cronico. Ma domani, promesso, lo faccio.

Come nascono i tuoi brani? 

Da un’urgenza, e dalla mia disperata voglia di parlarmi. Non ho mai creduto alla leggenda di chi parte per settimane di eremitaggio creativo: scrivere non è solo un’operazione di artigianato, da portare a termine entro tempi stabiliti coi dosaggi giusti degli esperti, come direbbe Bertoli. Esistono momenti e situazioni opportune, e la tecnica dev’essere un veicolo, non l’essenza dell’opera: oggi, a mio parere, il mercato ti mette spesso di fronte alla necessità di essere un tecnico accettabile e un ottimo bugiardo. Credo che la parola sia un contenitore esplosivo, capace di proiettare sulle pareti del cervello i più improbabili e inaspettati film; oggi, viene trattata come fosse l’anonima tessera di un puzzle che devi sbrigarti a finire, perché il tempo stringe e il mercato chiama. Quale sia poi il disegno del puzzle, poco importa: in un mondo d’apparenza, l’importante è aver dimostrato di saper portare a termine un lavoro inscatolabile e digeribile. Che differenza c’è a questo punto fra una canzone e un etto di prosciutto? Forse solo il fatto che, la canzone comprata al banco, non fa altro che allargare ancora di più il buco nello stomaco, senza privarti di quel senso di inutile pesantezza di un’indigestione indesiderata. Meglio un panino col crudo.

In un mondo sempre più incentrato sul web, cosa conta di più tra una pagina Facebook con tanti like o un buon disco?

Dipende dagli obiettivi che hai. Oggi la vita pubblica e privata di ogni uomo e donna di spettacolo finiscono col coincidere molto più che un tempo, e diventa labile e quasi invisibile, spesso, il confine fra i ruoli e le discipline: gli influencers fanno gli attori, gli attori fanno dischi, i cantanti fanno i giudici dei talent, i comici fanno i politici e certi politici appaiono molto comici. Quindi, torno a dire, dipende: se tutto quello che hai da offrire è la tua maschera sociale, Facebook e Instagram possono essere gli unici mezzi efficaci per raggiungere un pubblico più vasto, e quindi, meno attento ed esigente. Ma la credibilità artistica penso sia determinata da quello che produci artisticamente parlando; io, che non sono certo mai stato un adone, ma che nemmeno mi ritengo un completo cretino, sto provando con i ragazzi di Clinica Dischi a fare un buon disco.

Un aspetto positivo ed uno negativo del fare musica?

Solo aspetti positivi. Tutto è musica: il pensiero stesso è musica, il linguaggio è musica e l’energia, la vibrazione, l’intensità della vita è musica. Più che fare musica, la musica la viviamo; e non so se, per quanto mi riguarda, la vivo o meno nel modo giusto. Di certo, la vivo a modo mio; l’unico aspetto che trovo essere negativo della musica è la sua commercializzazione estrema, ma questo è mercato ed è un altro discorso.

Credi che un artista debba schierarsi politicamente?/Approvi la politica nella musica?

Credo sia una bugia pensare che esista qualcosa di pubblico che non sia politico. “Politico”, inteso nel senso più ampio ed originale del termine, come senso di appartenenza ad una comunità, e allo stesso tempo come desiderio e dovere di esprimere una posizione precisa, che sia personale certo, ma allo stesso tempo, nella forma della compromesso linguistico che l’opera d’arte consente e prevede, condivisibile. Nel momento in cui si espone pubblicamente, l’artista  rappresenta una comunità quanto il politico: la sua auto-referenzialità si allarga, si apre a raccogliere, quasi catarticamente, la preferenza e la condivisione della gente. Trovo che la canzone contemporanea, che sempre meno si occupa di politica, sia invece estremamente Politica, con la P maiuscola: le nuove generazioni sono distanti anni luce dalla burocrazia del palazzo, da parole vecchie e consumate che non sanno conoscere nuove primavere, dalla retorica da bere alle feste di partito per dimenticarsi di essere ormai superati, e dannatamente anacronistici. La canzone di oggi appare “vuota” a quelle stesse generazioni che considerano i propri figli e nipoti degli smidollati e degli incompiuti; ed è così che i figli del vecchio cantautorato continuano a fare Politica, ma in un modo generazionalmente incomprensibile a chi ha ancora in mano le redini del potere, del giudizio. A spaventarmi, in tal senso, è la sensazione che a volte tale meccanismo sfugga ai suoi stessi protagonisti, ai suoi attori principali: perché non esiste, per rispondere alla tua domanda, artista che non sia politico, ma esistono fin troppi artisti che non sanno di essere, comunque ed inevitabilmente, politicamente esposti. Chuck Berry sapeva di far la rivoluzione a colpi di rock’n’roll, mentre i padri del suo tempo gli bacchettavano le mani e ne proibivano le trasmissioni radio; i nostri capi popolo di oggi appaiono molto meno consapevoli della responsabilità davanti alla Storia, che non smette mai di vederci.

Cosa ne pensi dell’attuale music business?

Che sia la condanna inevitabile di cui ogni artista debba farsi carico, e l’orizzonte storico da cui non si scappa; viviamo nel presente, ad un passo di distanza dall’idealismo che ci ammala e ci ammorba, rendendoci difficile la vita. E nel presente, il mercato è la Regola e il Maestro, e puoi decidere di farci la guerra da bravo Don Chisciotte o puoi capire che anche quella realtà altro non è che il frutto della tendenza umana a dare un valore preciso ad ogni cosa. Terenzio diceva che non esiste nulla che non sia umano e che all’uomo non sia riconducibile: così anche il mercato altro non è che appendice connaturata dell’umanità, e la sua estinzione, la sua sconfitta, coinciderà con l’estinzione dell’uomo. Non sto dicendo sia bello, o brutto; dico solo che è così, e che anche gli artisti underground, quelli che popolano la nicchia e che si definiscono “outsiders” fanno parte di un mercato ben preciso, chiuso, ristretto, spesso inaccessibile e sicuramente più ipocrita del mercato propriamente detto. Un pò come un figlio che odia il padre, perché sa di assomigliarli troppo.

Credi che le nuove tecnologie aiutino il rapporto tra musicisti e pubblico o che abbiano distanziato gli uni dagli altri?

Credo esista semplicemente un nuovo modo di concepire le relazioni inter-personali. Il social è il monumento alla liquidità, alla velocità e all’immediatezza di una comunicazione che è più fitta quanto spesso terribilmente vuota. Allo stesso tempo, penso che sia un mezzo efficace a coinvolgere persone altrimenti inaccessibili, in modo più democratico (perché il social è universalmente accessibile) quanto demagogico, certo, a secondo dell’uso che se ne fa. La realtà preoccupante è però l’effetto storico che lo sviluppo tecnologico ha avuto sull’uomo, impigrendolo al punto tale da relegare la partecipazione fisica a live, proiezioni cinematografiche o spettacoli teatrali a qualcosa di faticoso, costoso, e tendenzialmente inutile; in questo senso, credo stia all’artista utilizzare il megafono delle tecnologie come richiamo ad un senso più “umano” di partecipazione, non rendendo se stesso totalmente accessibile attraverso i social, ma gestendo, nel rispetto di se stesso prima che del suo pubblico, la propria arte come qualcosa di più materico e presente rispetto all’effimera ed inconsistente immagine che i social ne creano.

Qual è a tuo giudizio il confine tra indie e mainstream?

Oggi non esiste. Un tempo, la parola indie faceva riferimento ad una modalità di produzione musicale che fosse, o provasse ad essere, indipendente dalle grandi label e dai gusti imperanti del mercato. Ora, indie e mainstream sono delle categorie estetiche allo stesso identico modo, vastissime e anonime. Se proprio vogliamo fare un pò d’ordine, rimanendo nel semplicistico duro e puro, il cantautore “svaccato” e maledetto, che ha pur sempre la sua etichetta e il suo spettro di riferimenti di mercato, è indie, ma appena fa soldi e fama diventa mainstream. Eppure cos’è cambiato, artisticamente? Forse solo l’entità del suo valore di mercato, che ha sempre però avuto, anche quando si definiva “indie”.

Cosa pensi del Crowdfunding? Lo ritieni un mezzo veramente utile per i musicisti?

Non ti so rispondere, sai? Non ho mai fatto crowdfunding. In linea generale, credo sia un grande atto di coraggio: alla fine, chi fa crowdfunding ritiene che il proprio progetto sia a tal punto convincente da poterlo rendere l’investimento di tante persone comuni, che nella vita fanno altro rispetto a produrre musica. Io sono un timido, e non ce la farei mai. Almeno per ora.