Ritroviamo i Kutso che hanno pubblicato lo scorso 28 Settembre l’album “Che effetto fa”, pubblicato da Wing/Goodfellas.

Parlateci del vostro ultimo lavoro. Cosa vi ha ispirato nella composizione?

Siamo partiti dal funk nero anni 70, per arrivare a Caparezza, Lucio Dalla e Venditti con un sound electro e armonie debitrici degli anni 60. Il disco è composto da 10 canzoni abbastanza eterogenee, il cui filo conduttore è un suono corposo e dei testi a volte malinconici, a tratti rabbiosi e altre volte fatalisticamente propositivi.

Quali sono le vostre principali influenze?

A parte gli artisti già citati, sicuramente i Talking heads per il ritmo e la “stortura” degli arrangiamenti, Stevie Wonder e Ronnie James Dio per la voce e i Beatles per tutto ciò che concerne la composizione nuda e cruda.

Come nascono i vostri brani?

Io (Matteo, cantante) compongo le canzoni chitarra e voce in solitudine e poi le porto in sala dove ogni componente della band pone il suo contributo negli arrangiamenti.

In un mondo sempre più incentrato sul web, cosa conta di più tra una pagina Facebook con tanti like o un buon disco?

Conta fare buona musica per dare un senso alla propria vita, ma conta avere tanti like per poter dare visibilità ad un progetto rendendolo appetibile per gli addetti ai lavori.

Vi riconoscete nella definizione di artisti indie?

Sì, veniamo da questo ambiente, anche se siamo degli outsider forse un po’ troppo insoliti per essere compresi fino in fondo; il nostro stile è indefinibile, ma ancora stiamo capendo se è una cosa buona o no.

Cosa ne pensate dell’attuale music business?

Penso che sia uno dei momenti più belli e democratici della storia della musica in Italia. Chi riesce a parlare con un linguaggio aderente ai tempi e ad individuare il proprio pubblico, vince…non ci sono grandi trucchi.

Credete che le nuove tecnologie aiutino il rapporto tra musicisti e pubblico o che abbiano distanziato gli uni dagli altri?

Sicuramente ci hanno avvicinati tutti, ora è più facile farsi gli affari dei musicisti e questi ultimi hanno definitivamente capito e accettato che i dischi si vendono con le chiacchiere, non con la musica.

Qual è a vostro giudizio il confine tra indie e mainstream?

Con l’esplosione dell’indie, questa parola serve solo ad indicare che il proprio successo è partito da una scena e non dalla televisione o da una grande casa discografica. Ma ora che il mercato si sta riassestando e sta capendo l’andazzo delle tendenze giovanili, penso che assisteremo al rinascere delle grandi concentrazioni di potere che probabilmente nei prossimi anni riporteranno il music business ai tempi in cui per avere successo bisognava passare per “chi comanda”. Adesso invece siamo ancora nella fase “giungla”, in cui può succedere (quasi) di tutto.

Cosa pensate del Crowdfunding? Lo ritenete un mezzo veramente utile per i musicisti?

Noi non l’abbiamo mai fatto, ma a quanto pare c’è chi è riuscito più o meno a coprire le spese di produzione dei propri dischi. In generale però non mi piacciono i “servizi per musicisti”, che spesso nascondono delle truffe legalizzate ai danni di chi suona e inconsapevolmente si spacca in quattro solo per far arricchire gli aggregatori.