Classe 1987, i Marlene Kuntz sono un gruppo che ha segnato profondamente la musica della mia generazione e non solo. Sabato sera suoneranno alle OGR di Torino, per un concerto i cui incassi verranno devoluti alla Onlus Per la Vita di Castelluccio di Norcia, comune colpito da un terremoto. Abbiamo incontrato Luca Bergia, batterista e fondatore della band per una chiacchierata a tutto tondo.
1) Vuoi parlarci del live che vi vedrà suonare alle OGR di Torino sabato sera?
Non è la prima volta che suoniamo in occasioni benefiche. In questo caso si tratta di aiutare le famiglie Norcine che hanno subito un terremoto. E’ un’occasione in cui stiamo cercando di coinvolgere il maggior numero di persone, proprio per far sì che la cosa riesca. Abbiamo diversi amici in quella zona e ci fa piacere poter essere di aiuto. Inoltre è la prima volta che suoneremo alle OGR.
2) Vi esibirete anche con Claudio Santamaria in una sonorizzazione live del film muto “Il castello di Vogelod”. Da dove nasce questa idea?
In passato ci era già capitato di sonorizzare dei filmati dal vivo. Per noi significa improvvisare molto e creare un tessuto sonoro funzionale al filmato, quindi il tutto avviene con un approccio più jazz, se vogliamo. In questo caso nasce da una proposta di Stefano Boni (Direttore Museo del cinema di Torino) che ci ha interessati a questo film degli anni 20, mai uscito in Italia. Si tratta di un thriller ambientato in un castello, quindi anche molto avveniristico per l’epoca. In breve abbiamo trovato l’interesse di Claudio Santamaria, anche lui un rockettaro con la passione per i progetti più folli. L’ambientazione del film lo ha reso perfetto per la dimensione del teatro e ora possiamo dire che è a tutti gli effetti uno spettacolo teatrale e ora andrà in scena per la regia di Fabrizio Arcuri. Credo sia uno spettacolo molto coraggioso e credo non ci siano altri spettacoli simili in giro al momento.
3) Che rapporto avete con i social?
Noi siamo partiti da un’era analogica e siamo approdati in un modo sempre più digitale. Abbiamo dovuto superare dei piccoli drammi interiori, perché è cambiato tutto rispetto agli anni ’90. Adesso i dischi non si vendono più, cìè stata una rivoluzione tecnologica che ha cambiato le carte in tavola. Nel 2013 abbiamo rilasciato “Ricoveri virtuali e sexy solitudini”, che esprimeva proprio questo nostro disagio tecnologico e di come i meccanismi di comunicazione siano stati stravolti in peggio. Ovviamente non ci si può opporre alla tecnologia, sarebbe stupido. Ovviamente avere un buon disco è la base però noi facciamo anche un lavoro di comunicazione. Quindi è molto importante saper leggere questo mondo e trovare una propria via. A noi è costato dei travagli ma siamo riusciti a trovare una nostra via non paracula, onesta. Oggi non basta fare solo musica, questa attività social richiede molto lavoro e devi cercare di capire cosa fanno gli altri e trovare un tuo modo di esprimerti.
4) Come hai visto cambiare il music business negli anni?
Mi viene un pò da ridere, penso sia più business e poco music. Negli anni ’90 credo ci fossero più possibilità per un disco strano, di farsi largo tra il pubblico. Oggi una cosa originale fa più fatica ad imporsi. Oggi non esistono più i talent scout. Noi stessi abbiamo iniziato perché siamo finiti nella compilation di un’edizione di Rock Targato Italia. Ci eravamo iscritti e avevamo suonato malissimo, infatti non passammo le selezioni. Un gruppo però decise di ritirarsi e noi fummo ripescati. Abbiamo quindi inciso “Canzone di domani” per la compilation e nello studio abbiamo conosciuto Gianni Maroccolo e Marco Lega.
Noi eravamo anche loro fan, ad ogni modo un talent scout (Enrico Romano, edizioni MCA) si ritrovò tra le mani la compilation, acquistata ad un mercatino da un punk e ci contattò. Così abbiamo inciso “Catartica”. Lo avremmo fatto lo stesso ma forse con meno mezzi ma questa figura fece la differenza. Oggi non ci sono più, è tutto più appiattito. Canova stesso ha dichiarato che nel pop si lavora con artisti dalla presa sicura per un disco solo. Oggi c’è anche un ascolto più distratto, in streaming. Non si ascolta più un disco intero. Un tempo ascoltare un disco era un rito, manca la mitologia della musica che c’era un tempo. Oggi anche il concetto di tracklist non ha più senso. E’ in questo contesto che noi siamo dei marziani che continuiamo a fare dischi e a fare rock.
5) Cosa significa oggi essere un artista indipendente?
Mah, indie, mainstream, alternativi, sono tutte un pò delle etichette che servono vagamente a definire un genere. Le regole oggi sono così cambiate che vale un pò tutto. Secondo me un artista è uno che fa della musica un’opera d’arte ed è libero di fare quello che vuole. In questi ambiti noi abbiamo spesso trovato una grande chiusura e una grande ipocrisia, ghettizzante. E la stampa di settore non ha aiutato a sviluppare una scena. Non ci siamo mai sentiti parte di una scena. Mancava il sostegno delle testate giornalistiche.
6) Cosa pensi dei talent show?
Secondo me, in un mondo dove conta fare business, fare un talent ha senso. Fai ascolti e più ne fai e più guadagni. Per me è perfetto per chi fa pop. E’ una macchina realizzata per chi vuole fare ascolti, la musica lì ha uno spazio relativo. Propongono solo canzoni pop e le scenografie e i battibecchi tra giudici contano più della musica. Se però fai pop e vuoi una vetrina, il talent è perfetto. Se però vuoi fare arte, e per noi la musica è arte, quella roba ti distrugge. Tu da artista ti trovi a confrontarti con brani di altri, ma perché mai? Tu sei tu. Inoltre ben pochi dei partecipanti hanno un repertorio e non scrive i suoi pezzi e questo è drammatico. Bisogna però rendersi conto che la musica da sola non fa ascolti. Mi capita di vedere documentari fantastici su George Harrison o altri. Se però si trasmette un concerto, si ha un calo di ascolti, perché la cultura è andata in quella direzione, tutto lì.
7) Cosa pensi del Crowdfunding?
Io credo sia un mezzo valido. La nostra casa di produzione Jump Start, ha chiesto proprio un crowdfunding per registrare un documentario sulla realizzazione di Catartica. Senza questo mezzo non saremmo riusciti a farlo, perché si trattava di un progetto costoso. Credo sia una cosa buona. Il problema è che se lo fai e sei già strutturato, può avere senso. Se parti da zero è più difficile fare breccia. Sarebbe meglio avere invece la buona vecchia etichetta, che si sbatte, come fate voi.
8) Un consiglio a chi vuole vivere di musica?
E’ difficile, secondo me la cosa più importante è avere una propria identità forte. Un’identità che sia possibilmente il più originale possibile. Volendo essere scaltri si può pensare anche al pubblico di riferimento e avere gli occhi ben aperti. La cosa più bella sarebbe avere un team di persone in cui ognuno si occupa di qualcosa.